Riassunto della puntata precedente: dopo quasi una settimana in Utah tra rafting, rocce e panorami stropicciaocchi i nostri eroi si apprestano ad entrare in Arizona.
Come spesso accade più le aspettative sono grandi, più la delusione è tanta. La Monument Valley, luogo storico e leggendario che ci ha accompagnato tra film, cartoline e suggestioni da vecchio West è un posto molto scenografico e piacevole da scoprire comodamente nel fresco del nostro pulmino, ma rispetto alle meraviglie che abbiamo visto nei giorni scorsi…niente di che.
Come turisti della domenica riempiamo la mattinata di foto ricordo e soste inutili e poi ci rimettiamo in macchina. Dopo una tappa mordi e fuggi al Lake Powell tanto sponsorizzato dal ginecologo della Giulia – il mitico Dott. Traversa – ed effettivamente molto panoramico e rilassante, verso sera arriviamo a Tuba City, lugubre città all’interno della riserva indiana Hopi.
Mi sono dimenticato di dirvi che una delle cose che più ha reso questo viaggio in USA indimenticabile non sono stati i luoghi visti, ma spesso le assurde cittadine dove abbiamo passato notti di vario genere ed emozione.
Tuba City è un ghetto. Un posto desolato, abbandonato e a tratti pauroso dove tristi ed emarginati vivono gli antenati degli autoctoni pellerossa. Il paesaggio è americano, ma le persone sono tutte indiane dagli occhi vitrei e gli sguardi sofferenti. Siamo gli unici bianchi e non ci sentiamo molto a nostro agio. Per tirarci su di morale andiamo a comprare qualche birra, ma il cassiere ci informa che se vogliamo alcoolici dobbiamo andare 31 miles east oppure 45 west. L’alcolismo qui è un grave problema, quindi all’interno della riserva è proibito vendere ogni tipo di bevanda inebriante. Vabbè andiamo a letto.
Superato lo choc e con un sonno ristoratore alle spalle puntiamo dritti dritti verso un’altra tappa imperdibile: il Grand Canyon. Grande è grande, canyon è canyon, ma anche lui ci delude: un po’ per colpa nostra e un po’ per colpa dello straordinario Utah che, in quanto a gole, rocce e paesaggi lunari è imbattibile.
Come detto anche noi ci mettiamo del nostro. La cosa più suggestiva e faticosa da fare al Grand Canyon è l’escursione dalla cima fino al fondo dove scorre il fiume (e ritorno..). Una camminata spacca gambe che qualcuno percorre correndo andata e ritorno, ma che i comuni mortali dovrebbero intraprendere di buon mattino per evitare il grande caldo ed equipaggiati per un difficile trekking.
Noi invece arriviamo al Visitor Center e il tizio delle informazioni ci guarda tra il dispiaciuto, il preoccupato e lo strafottente: “Sicuri di volerlo fare?” Se avessimo avuto uno specchio avremmo capito la natura del suo scetticismo. Tom e la Vanny sono in infradito, io ho delle scarpe da ginnastica blu fosforescente che scivolano stando fermo, Fede e la Giulia hanno un capello da pescatore in testa e sembrano più pronti a bersi una pina colada in piscina che a camminare per ore sotto il sole.
Piantina alla mano e senza aver la minima idea di sentieri, raccomandazioni e itinerari ci buttiamo giù verso il centro della terra tra le ripide discese del Grand Canyon. Dopo varie pause ci fermiamo per pranzare e scopriamo di essere ad un terzo della discesa. Ci guardiamo in faccia e, con un democratico silenzio, decidiamo di tornare indietro. Ore di rantoli, bestemmie, sudore e ginocchia che saltano e finalmente arriviamo al belvedere dove sveniamo tra simpatici scoiattoli e fastidiosi turisti.
Dovremmo fermarci, risposare, lavarci ma tra noi e la prossima meta ci sono solo 270 miglia e quattrro ore di macchina e certe signore non si possono far aspettare, non quando si chiamano Las Vegas.
Ero già stato tre anni prima a Sin City, una città unica, illogica, immorale, immatura e straordinariamente affascinante. Due giorni, non di più perché poi diventa noiosa. E due giorni saranno.
All’imbrunire, nel mezzo del deserto sempre più buio, all’improvviso vediamo uno scintillio, un’oasi di luce innaturale, un mondo di palazzi dalle forme più bizzarre che ci accoglie a braccia aperte. Las Vegas è un flash fisico e mentale. La voglia di esagerare e trasgredire è il welcome drink di questa città e noi vogliamo subito tracannarlo.
Prendiamo una stanza doppia a 75 dollari in un hotel incredibile con solo 3.700 stanze o giù di li. Sporchi e puzzolenti percorriamo l’infinita hall con mille bagagli tra cui tre forme di Parmigiano Reggiano sottovuoto da un kilo l’una che la Vanny ha portato da Reggio Emilia e che ora sgocciolano e sudano tra le nostre braccia.
Sgattaioliamo illegalmente in camera tutti e cinque e c’è ancora un sacco di posto. Ci sistemiamo bevendo vino bianco comprato per strada in un liquor store per risparmiare e ovviamente mangiando Parmigiano!
Dalla nostra stanza al marciapiede dello Strip ( il viale principale di Las Vegas) ci vogliono 20 minuti a piedi… e le tentazioni sono così tante che basta un attimo per inciamparci. Al primo bicchiere di vino la Giulia e la Vanny sono adescate da uno spacciatore. Non è un modo di dire, proprio un pusher che sta cercando clienti.
48 ore tra relax in piscina, visite agli assurdi casinò, vie crucis tra i bar di Parigi, New York, Luxor, Bellagio mille risate e pochissimo sonno. Sfatti e rincoglioniti lasciamo questa città incredibile che ci ha centrifugati e sputati fuori nelle strade desertiche.
Un paio d’ore a spendere altri soldi in un outlet sperduto nel nulla dove, complice il cambio favorevole, facciamo affari incredibili e poi con il sole ormai scomparso ci fermiamo a Beatty, minuscola cittadina ai margini del Nevada.
Hamburger e patate texane piccanti e via a letto. Tra poche ore ci aspetta la discesa nel caldo inferno della Death Valley.