L’Africa è il continente che mi affascina di più, con la sua natura primordiale e un’anima ancestrale che quasi puoi toccare. L’Africa è anche il luogo dove stavo per morire, affogando.
E’ stata una delle esperienze più forti, spaventose ed emozionanti – perché le emozioni non sono solo quelle positive – della mia vita. Per questo e perché ogni tanto mi piace raccontare questa storia più a me stesso che agli altri, voglio scrivere un post un po’ diverso dal solito e ripercorrere quel giorno in cui, sarebbe bastato qualche secondo in più sott’acqua e Trip it Easy non esisterebbe! (Quale perdita per il genere umano, vero?)
Era da settimane prima della partenza che facevo una testa così alla Daniela su quanta voglia avessi di fare rafting appena arrivati in Zambia. Le rapide dello Zambesi si generano ai piedi delle spettacolari Cascate Victoria e sono tra le più potenti e selvagge del pianeta. C’è solo un altro posto al mondo altrettanto ambito da tutti gli amanti del rafting ed è in Uganda lungo il Nilo. Insomma, si parla del meglio.
Avevo già fatto rafting in Colorado anni prima ed era stata una delle esperienze più divertenti e adrenaliniche mai provate, perciò non vedevo l’ora di solcare questo fiume impetuoso. Anzi, ero in realtà un po’ deluso perché non era la stagione dell’acqua alta in cui le rapide innalzano di un grado il loro livello di difficoltà, raggiungendo anche il V ovvero il massimo. Solamente grado III e IV, pazienza!
La Daniela seguiva il mio entusiasmo, con moderazione.
Dopo un viaggio di 2 giorni e 2 aerei persi arriviamo a Livingstone e prenotiamo subito il rafting per il giorno dopo. Che l’energia dell’Africa ci accolga con tutta la sua potenza!
Che si fa sul serio lo capiamo subito in fase di briefing quando per 30 minuti esatti le guide ci danno una serie di istruzioni capillari su cosa fare, cosa non fare e soprattutto un grosso approfondimento sulle procedure di sicurezza e d’emergenza.
Mi giro verso la Dani e vedo la sua faccia terrea, la paura che disegna i confini del suo volto. Mi guarda terrorizzata e mi dice: “Non me la sento, vai solo tu”. Io che credo molto nel detto “la felicità è reale solo quando condivisa”, voglio vivere questo momento con lei e insisto. Evidentemente così tanto e per tutto il viaggio in pulmino fino al canyon che lei cede. Io la rassicuro, figurati l’ho già fatto è bellissimo, super sicuro e sarà una figata vedrai!
Giusto il tempo che lei si automotivi e le guide ci indicano una scala malconcia, piena di chiodi arrugginiti e completamente in verticale che dobbiamo utilizzare per scendere fino al fiume. In pratica dobbiamo calarci giù dal canyon senza nessun tipo di supporto di sicurezza lungo questa scala che ogni tre scalini ne regala uno mancante o spezzato.
Ci mettiamo più di mezz’ora facendo tutta la discesa a ragno – tipo a quattro zampe con la pancia in su – con un’ansia immensa, il terrore negli occhi e i rimbrotti delle guide perché siamo lenti e ultimi.
Arriviamo sulla spiaggia lungo il fiume provati fisicamente e ancora a metà tra la felicità di aver scampato la morte e la paura di averla quasi incontrata. La Daniela è sconvolta e vuole solo fermarsi e ripigliarsi.
Le guide ci richiamano all’ordine e ci sollecitano a salire sui gommoni. Io la guardo e amorevole proferisco una delle frasi meno profetiche della mia vita: “Dani tranquilla, il peggio è passato.”
Lei è in trance, ma da qui non si può tornare indietro.
Siamo due zattere, noi quella dietro. Appena partiti, giusto per aggiungere ulteriore ansia e spavento alla mia dolce metà già impanicata fino all’osso, la prima imbarcazione raggiunge la prima rapida e nel giro di pochi secondi scompare sotto un getto d’acqua imponente ribaltandosi completamente. I ragazzi che remavano solerti vengono sbalzati fuori e si inabissano nelle acque ribollenti. Tempo qualche secondo tornano tutti a galla e, come da procedura di sicurezza, salgono sul gommone cappottato. Si guardano e poi ridono felici, in fondo chi fa rafting vuole essere scaraventato in aria almeno una volta.
E qui, non pago, mi lancio in un’altra frase dal desiderio rassicurante, ma dal presagio nefasto: “Hai visto Dani? Sono tornati su tutti, subito e si sono divertiti."
Il colore del suo viso ormai è grigio terrore.
Partiamo anche noi. Rema, rema, rema. Stop! Aggrappatevi alla fune! Viaaaaaa!!!
Veniamo inghiottiti, centrifugati e poi sputati fuori dalla prima di 15 rapide dai nomi tutt’altro che ben auguranti come Terminator, la tazza del water del Diavolo, Doppio Problema, il Muro e un più mite, ma altrettanto evocativo, Lavatrice.
Siamo 6 più la guida, un ragazzo americano viene sbalzato fuori, cade in acqua, riemerge e lo tiriamo su a bordo più felice che mai! Che figata pensiamo tutti tranne la Dani e una ragazza libanese dalle simili vedute.
Seconda rapida, secondo giro, seconda caduta, ma questa volta tocca a me.
Sul lato sinistro partendo dalla prua c’è un ragazzo francese, io e la Dani. Come spesso succede, il gommone entra nella rapida, si piega su se stesso e quando fa per distendersi nuovamente dà una frustata che proietta in aria – e poi in acqua – chi è seduto sul lato in questione. Che in questo caso siamo io e il tipo francese, la Daniela per qualche legge della fisica – o forse per la forza con cui si aggrappa alla corda – non cade.
L’amico transalpino torna su subito, io no. Ma questo lo so adesso.
Nell’attimo in cui vengo sbalzato fuori c’è tutta l’adrenalina, l’emozione, la paura e il divertimento per un fatto temuto, ma in realtà sperato. Finisco nelle acque marroni e gorgoglianti dello Zambesi e, molto tranquillamente, aspetto di ritornare a galla grazie alla potente spinta del mio giubbotto di salvataggio.
Comincio a risalire – non ero andato molto a fondo – ma sbatto la testa contro qualcosa di relativamente morbido che capisco essere il fondo della nostra zattera che mi rispedisce giù. Non mi preoccupo, può succedere basta aspettare un secondo che la forte corrente trascini verso valle uno dei due natanti più velocemente dell’altro, di solito il gommone.
La forza dell’acqua mi rispinge in alto e io sbatto di nuovo contro il gommone. Che succede? Penso con un principio di agitazione.
L’acqua intorno a me è scura, un marrone inframezzato da bolle e schiuma che rendono impossibile qualsiasi tipo di visibilità. L’acqua intorno a me è potente e mi rende immobile. Non posso nuotare, non riesco a salire.
Alla terza volta che sento il mio corpo risalire per poi bloccarsi sul fondo del gommone capisco di essere bloccato e contemporaneamente la necessità di respirare si fa impellente. Sento gonfiarsi i polmoni, la mia trachea in cerca di prezioso e sempre più scarso ossigeno, una sensazione di male fisico e di impotenza.
Non so da quanto sono qui sotto, ma sono sicuro che il mio corpo è ufficialmente entrato in modalità risorse insospettabili per garantirmi la sopravvivenza. Avete presente quelle forze che non sai di avere, quei limiti che pensi di non poter superare e invece in situazioni di emergenza il tuo corpo si dimostra molto meglio di quello che è ogni giorno?
Lo capisco perché non sono mai stato in apnea così a lungo, in una normale situazione da piscina sarei già riemerso da tempo.
A questo punto mentre il mio cervello ordina di serrare la bocca e attingere alla residua riserva d’aria, la mia mente parte libera, per assurdo quasi rassegnata e non spaventata. Non sto pensando che morirò, anzi sono quasi certo che farò la fine di tutti gli annegati di Baywatch. Mi immagino di bere mezzo Zambesi, venire ripescato a riva e sottoposto a massaggi cardiaci ripetuti con respirazioni bocca a bocca (speriamo non della guida!). Immagino di vedere tutta la vita scorrermi davanti agli occhi negli attimi decisivi tra la vita e la morte e poi di rinvenire con singhiozzi e conati assortiti.
Invece non succederà nulla di tutto questo.
Non ce la faccio più. Sento un dolore lancinante, l’urlo dei miei polmoni che gridano: “Ariaaaa”. Devo respirare assolutamente.
Il mio cervello abbandona le scene da telefilm e altri vaneggiamenti e si sintonizza sul canale Lucidità.
Mi rivolgo a me stesso dicendomi che o succede qualcosa o adesso apro la bocca e inghiotto qualche litro di acqua. Mentre valuto queste due opzioni mi si accende la classica, salvifica, cinematografica lampadina che si materializza in un ricordo del briefing pre partenza, nello specifico le procedure di emergenza.
“Se rimanete incastrati sotto il gommone – ma allora succede spesso cazzo! – alzate le mani e seguite il profilo della zattera fino a quando non sentite la gomma salire, quello è il bordo."
In pratica, bisogna improvvisarsi Spider Man e, facendo forza sulle braccia, spostare il proprio peso lungo il fondo dell’imbarcazione fino ad arrivare al bordo e quindi alla salvezza.
In un micro secondo metabolizzo questa epifania e faccio esattamente quanto appena descritto. In un attimo sento me stesso muoversi, una fiammella di speranza si riaccende, mi sembra di vedere una luce, sento il bordo, cazzo ci sono, sento l’aria tra le mie mani, mi fiondo fuori e
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH
Il respiro più grande, disperato, urgente e cacofonico che io abbia mai fatto.
Sento una serie di mani che mi afferrano e mi tirano a bordo, io lascio fare cercando solo di mangiare più aria possibile.
Mi guardo intorno spaesato, frastornato, vivo per miracolo e con il rumore dei miei respiri che ancora mi fa pensare di non aver scampato la morte.
Vedo la Dani con una faccia che non le ho mai più rivisto. Mi dice qualcosa, mi chiede come sto e io continuo solo ad ansimare.
La guida, come se non fosse successo nulla, mi chiede: “Are you ok? Can we move on?” Io lo guardo sconvolto e gli dico: “No, no ok”. Evidentemente però per lui è tutto a posto e dopo neanche un minuto ci rimettiamo in marcia.
La Daniela mi chiede conferma di come sto e io, che ora respiro quasi normalmente, cerco di dissimulare il mio terrore e di minimizzare l’accaduto e rispondo poco credibilmente: “No, dai tutto ok tranquilla.”
Ore dopo mi avrebbe confidato che non ci aveva creduto per niente visto che, a detta sua, avevo la faccia della morte. In effetti, ci ero vicino.
Il problema è che adesso mancano altre due ore e 13 rapide. Non vi dico quanto ce le siamo goduti, anche se per fortuna non siamo caduti più.
Verso la fine del tragitto, quando le rapide sono finite e la tensione comincia leggermente a scendere la nostra guida, pensando di farci cosa gradita, ci indica le rive del fiume. “Look, baby crocodile!” Ah, ci sono i coccodrilli qui?
Per fortuna non lo sapevo mentre stavo affogando, chissà quali variabili impazzite avrebbe ponderato il mio cervello.
Tornati al centro di accoglienza ci danno il nostro attestato di partecipazione e ormai sano e salvo mi tolgo una curiosità. Sorry, ma c’è qualcuno che muore facendo rafting sullo Zambesi? La risposta mi gela il sangue. Si, da quando siamo aperti sono morti in 15, circa uno ogni due anni. Non ho il coraggio di chiedergli quando è stato l’ultimo.
Ancora oggi scrivere e rivivere questi momenti mi fa battere il cuore e mi toglie il respiro. Per la cronaca, tre anni dopo ho rifatto rafting, molto più blando, alle Cascate delle Marmore in Umbria e a fatica mi sono bagnato. Lì non muore nessuno e non ci sono nemmeno i coccodrilli.
Il tuo racconto mi ha fatto sognare!
Non era un incubo? :-D
È successa la stessa cosa anche a me. Io avevo la ragazza accanto nel panico e per stare fuori dall’acqua si appoggiava sulla mia testa e mi teneva giù. Eravamo alla terminator. Non so se sono morta o solo svenuta. Mi ricordo solo che ho aperto gli occhi sul gommone di appoggio, girata su un fianco e con il giubbotto slacciato. Non hanno voluto dirmi cosa era successo. Era il 2008