Perdersi tra gli idiomi, le lingue e i dialetti del mondo è una delle esperienze che più mi diverte durante i miei viaggi e infatti ne ho già parlato in un post qualche mese fa. Ma, mentre scrivevo un altro articolo sul Giappone mi sono ritornate alla mente alcune scene del nostro viaggio che ancora oggi, a distanza di quasi 4 anni, ci fanno sganasciare dal ridere.
Ecco, forse con questa introduzione ho creato aspettative troppo alte e ora vi aspettate di schiantarvi dalle risate ad ogni capoverso. Non avendoli vissuti, forse questi episodi vi faranno meno ridere, ma secondo me vale lo stesso la pena di proseguire nella vostra lettura!
Una premessa doverosa – mi scuso con chi ha letto gli altri articoli ma va fatta di nuovo – è che i giapponesi non amano, per usare un eufemismo, essere fermati da cafoni stranieri che chiedono indicazioni, ma per la loro cultura se interrogati, devono prodigarsi per aiutarti.
Cosa significa questo? Significa che quando i vostri occhi si alzano dalla cartina e cercano un povero diavolo a cui domandare, loro come zebre nella savana fiutano il vostro odore, spalancano gli occhi in segno di terrore, forse tremano anche un po’, ma soprattutto si bloccano totalmente sperando di mimetizzarsi nella folla e di non destare il vostro interesse.
Mentre vi avvicinate i loro occhi vorrebbero urlare, ma silenziosamente rimangono immobili. Appena fate la vostra domanda loro respireranno e si arrenderanno, ora vi devono aiutare! E poi ovviamente saranno super gentili, impacciati, buffi e adorabili.
Domandare la strada in Giappone ci succedeva almeno 20 volte al giorno, ma qui riassumo gli episodi più assurdi.
Troppo facile
La cartina ci dice che siamo a qualche decina di metri da un fiume che altro non è che un semplice punto utile a trovare la mia strada verso chissà dove. Senza indugio placco un signore con famiglia al seguito e domando: “Excuse me, where is the river?” Faccia sconvolta, quasi intesita manco avessi detto “Fuck you”.
Accorcio e dico: “River”. Nulla. Scandisco: “Ri-ver”. Zero. Mi butto sul linguaggio dei segni e comincio a mimare una specie di serpente che dovrebbe essere un fiume. Nada. Frustrato comincio a ripetere “River, river”. Improvvisamente lui urla: “Aaaaaah Li-vel”. Era tutta questione di erre. O elle.
Le indicazioni in giapponese scritto
Kyoto. Hotel 3 stelle con reception e, pare, personale che parla inglese. Chiediamo indicazioni per raggiungere la foresta di bambù di Arashiyama. La signora comincia a parlarci in un giapponese impeccabile e noi la guardiamo perplessi. Lei è impassibile e allora le suggeriamo di utilizzare una mappa per spiegarci meglio.
Lei annuisce, prende un fazzoletto di carta e comincia a scriverci sopra una serie di ideogrammi. Continua per 2/3 minuti buoni riempiendo un quarto di quel foglio di cellulosa con disegni indecifrabili. Io la guardo, prendo il fazzoletto dalle sue mani e ringrazio più volte facendole credere che è stata veramente utile e di vitale aiuto. Usciamo e in qualche modo arriviamo a destinazione.
Il vecchio che ci precede
Blocchiamo un vecchietto arzillo e dai vestiti sgargianti che capisce subito dove vogliamo andare – incredibile – biascica qualche parola nipponica e si lancia a passo da marcialonga facendoci segno di seguirlo. A noi bastava sapere la direzione, ma lui continua a trottare. Si ferma, ci fa frenetici cenni che potrebbero essere tradotti con "Dai, sbrigatevi presto!" come se stessimo scappando dall’Armageddon e procede di buona lena. Questa cosa si ripete 4/5 volte fino a quando ci ha condotto praticamente dentro al posto che cercavamo. Anzi no, era un altro, ma va bene lo stesso.
La coppietta che ci segue
Mercato, mille bancarelle e negozietti e noi che cerchiamo uno store di magliette. Chiediamo a una coppia di teenager terrorizzati che ci risponde “Zugu” facendo cenno con la mano “A destra”. Io, dopo una settimana di queste pantomime, replico seriamente e prontamente come se il dialetto di Kyoto fosse la mia seconda lingua: “Ah…zugu!” indico anch’io a destra e concludo con un “Domo Arigato”. Lui emette un grido di felice stupore "ohhhh" e ripete un miliardo di volte: "Zugu".
E mentre tutti gli altri se ne sarebbero andati, i due ragazzini ci seguono con lo sguardo, uno sguardo materno e di sincera preoccupazione. Mi giro varie volte indietro e loro continuano a fissarci e poi a indicare “a destra” per assicurarsi che non ci perdiamo. Troppo teneri.