Non potrete mai dire di conoscere l’India se non avete fatto almeno un viaggio su uno dei suoi incredibili treni. Una frase perentoria e netta, ma vera quanto i profumi, i colori, gli sguardi e le storie che si incrociano tra i vagoni arrugginiti e scricchiolanti della rete ferroviaria più grande del mondo.
Come spesso succede il ricordo più forte e vivido è quello della prima volta. La mia è stata a bordo di un treno espresso da Calicut a Varkala. Poco meno di 350km lungo la costa del Kerala fin quasi alla punta del subcontinente indiano. Nove ore, una notte vivace e indolenzita, una marea di umanità addosso, un universo con cui condividere risate, gentilezze e street food.
Dopo un weekend con dei ragazzi conosciuti durante il mio campo di volontariato a Bangalore, saluto tutti, salgo su un tuk tuk e vado alla stazione di Calicut dove tutto è chiuso perché domenica. Attimi di disagio e poi qualcuno mi indica una biglietteria alternativa dove mi accaparro un biglietto per il primo treno per Varkala, piccolo villaggio di pescatori ai piedi di una meravigliosa scogliera. Non so quando passerà questo treno e neanche che biglietto ho preso; dal prezzo che ho pagato deduco un posto infimo.
Mi informo e il treno parte alle 8 con arrivo previsto per le 4 di notte. Non mi piace arrivare tardi e quindi investo un po’ di euro e riesco a prenotare una camera di una guesthouse via telefono e un buon uomo che mi venga a prendere in piena notte.
Leggo, mi rilasso, mi guardo in giro e poi si fa ora di andare.
Il binario, come quasi sempre in India, è lunghissimo. La gente comincia ad assieparsi per tutta la sua lunghezza, anzi molti addirittura attraversano i binari e si posizionano dalla parte opposta per salire dove nessuno scenderà ed entrare prima.
Un po’ confuso e preoccupato, mostro il mio biglietto ad un signore chiedendogli come faccio a trovare il mio posto. Mi guarda e con fare paternalistico mi dice: “Tu non hai un posto, ti devi sedere dove riesci, ma tanto c’è troppa gente.” E quindi? Quindi forse con il passare delle fermate qualcuno scende e tu trovi un angolino. Questo è il suo sunto.
Bene. In un nugolo di indiani molto agili, determinati e con al massimo un sacchetto come bagaglio, eccomi qui, l’unico straniero, con due zaini ingombranti e la faccia di chi si è perso.
Arriva il treno, attimi confusi, tutti salgono, mi faccio strada, spingo, vengo sballottato, riesco ad entrare. Davanti al mio sguardo un vagone traboccante di esseri umani, appollaiati ovunque, stipati in spazi vitali che sfidano le leggi della fisica.
Mezzo vagone mi invita gentilmente, ma con fermezza a sbolognare i miei zaini che stanno rubando spazio prezioso. Li lancio sotto ad un sedile dove 4/5 persone mi guardano incuriositi.
Sopra di loro, al posto delle valigie, altrettanti indiani silenziosamente affrontano questo lungo viaggio seduti su grandi barre di ferro destinate ad altri usi.
Un giovane mi sorride e attacca bottone. E’ simpatico, curioso, vuole sapere di me, dei miei programmi, di cosa penso dell’India. Sarà lui ad indicarmi, nove ore più tardi nel cuore della notte, che è ora di scendere.
Il treno sferraglia via da Calicut, fuori è già buio, ma la luce della carrozza è più viva che mai e io passo il tempo ad osservare i miei compagni di viaggio.
Poco più di un’oretta e ci fermiamo. La gente salta giù dal suo giaciglio, qualcuno scende, altri fumano, entrano i venditori di cibo e si libera un posto proprio nel vano porta valigie sopra alla mia testa.
Attorno a me ci saranno almeno 6/7 persone in piedi che bramano una seduta e allora curioso, aspetto di vedere come si giocheranno i pochi centimetri a disposizione.
Nel giro di un secondo, il mio giovane amico e un altro signore – entrambi in piedi come me – mi fanno cenno di muovermi e quasi mi spingono verso il posto libero. “Go go!” Io? Ma come? No vabbè andate voi, Sure?
Insistono, non mi pare il caso di rifiutare è un’ottima offerta!
Eccomi seduto assieme a due signori e un bimbo su uno scomodissimo porta valigie. Davanti a noi, a circa mezzo metro, altri quattro uomini sono accartocciati in egual modo.
Sono un attimo in confusione, tutto è successo in fretta e non mi accorgo che sono seduto in maniera molto maleducata. Infatti, passa meno di un minuto e sento qualcuno darmi dei piccoli pugni sui piedi. Chi, cosa, dove??
Non ci avevo fatto caso, ma poggiando le chiappe al posto di una valigia ho i piedi che penzolano esattamente davanti alla faccia di chi è normalmente seduto nelle panche del treno.
Mi scuso, tiro su le gambe, tolgo le scarpe e le appoggio su uno dei grandi ventilatori che rende l’aria monsonica un filino meno umida. Incrocio le gambe spezzandomi entrambi i malleoli contro le sbarre di metallo e sorrido. “Sorry”. In risposta ricevo qualche scuotimento di testa, quel gesto tipicamente indiano che vuol dire tantissime cose, ma che in questo caso significa: “Va bene, sei straniero non ti preoccupare.”
Sono un privilegiato, ho un “posto a sedere”. Non posso lamentarmi, ma dire che sono comodo sarebbe una menzogna vera e propria. Io e i miei vicini di mensola passiamo il tempo in silenzio, improvvisando manovre di tetris e twister per incastrare gambe, piedi e braccia alla ricerca della posizione meno rattrappita.
La notte scorre, lenta come questo treno. Dai finestrini entra aria fresca e ristoratrice. Io leggo, assonnato, un romanzo di John Grisham appena comprato in un edicola della stazione.
Provo a schiacciare un pisolino, impossibile.
Le fermate si susseguono e, nonostante la tarda ora, ogni volta un piccolo sciame brulicante ed energico entra ed esce dalla carrozza portando con sé voci, urla, rumori e odori. I venditori ambulanti salgono preceduti dai loro profumi e annunciano a gran voce le loro bontà.
Una gentile vecchietta mi propone le sue delizie che trasudano fritto, curry e spezie varie. Non ho cenato, ma lungi da me l’idea di abbandonarmi ad uno street food così rustico e artigianale che potrebbe portarmi dritto dritto al bagno. Che tra l’altro io non l’ho mica visto un bagno su questa carrozza. Lo vedrò prima di scendere e ringrazierò tutti gli dei indu che non ho dovuto usarlo!
Un po’ di fame però mi viene e quindi mangio le mie due classiche arance, compagne fedeli di ogni mia permanenza superiore alle tre ore sui mezzi pubblici del terzo mondo.
Ne offro qualche spicchio ai miei vicini che ringraziano visibilmente felici per questo mio gesto, ma declinano. Poco dopo le parti si invertono e sono loro ad offrirmi uno spuntino insistendo come faceva mia nonna quando ero piccolo. Dai che è buono! No grazie, non vorrei dover cambiare il paragrafo qui sopra sul bagno.
Dai miei calcoli non dovrebbe mancare molto, chiedo conferma al mio amico che finalmente si è seduto e lui annuisce. Mi preparo, lascio il mio prezioso posto a qualcun altro e trascorro gli ultimi minuti scambiando quattro chiacchiere con questo simpatico ragazzo.
Il treno rallenta, cigola, sbanda leggermente, arresta la sua faticosa corsa. Saluto mezzo vagone, anche quelli con cui ho avuto poco a che fare. Sono stato un po’ l’attrazione di un viaggio per loro altrimenti banale e mi salutano con compostezza e timidi sorrisi.
Io li adoro.
Mi hanno accettato, mi hanno aiutato, hanno tollerato la mia goffaggine e la mia maleducazione e infine mi hanno accolto . Ogni volta che metto piede su un treno indiano è sempre la stessa storia. Sorrisi ed emozioni sincere. Piccole, autentiche.