Avevo letto che il viaggio in treno Cuamba-Nampula nel nord del Mozambico era un’esperienza di quelle imperdibili, da fare assolutamente. Io adoro i viaggi via terra, soprattutto quando si tratta di mezzi sgangherati e paesi del terzo mondo dove l’imprevisto è previsto.
Avevo quindi organizzato il viaggio in modo e maniera di riuscire a salire su questo treno che fa la tratta solo in alcuni giorni, che impiega ufficialmente 9 ore e che non ha la 1° classe, ma solo seconda e terza. Forse per farti subito capire di che scorza è fatto!
Comprare i biglietti è stata un’epopea, in pieno stile africano. Siamo andati alla stazione di Cuamba quattro volte, l’ultima a mezzanotte perché i bigliettai sono sul treno e finché questo non arriva a destinazione non possono venderti i biglietti. Invece che alle 5 di pomeriggio la carovana di vagoni è arrivata alle 24 e, anche in questo caso, erano segnali premonitori che andavano colti.
C’è una fila di mozambicani piuttosto lunga e solo 12 posti di seconda classe. Avevo letto frasi minacciose e a tinte fosche sul fatto che era fondamentale evitare la terza classe. Io sono sempre a caccia di avventure, ma non di masochismi. Un po’ all’italiana – che poi assomiglia molto all’africana – e un po’ per il fastidioso razzismo contrario per cui i turisti sono privilegiati, saltiamo tutta la fila e ci assicuriamo due biglietti di seconda classe.
Partenza tra 5 ore e 30 minuti esatti.
Qualche ora di sonno e quando fuori è ancora buio ci dirigiamo in stazione (per la quinta volta in poche ore) e incontriamo altri due ragazzi italiani con cui avevamo fatto la trafila dei biglietti e che saranno – grazie a Dio – nostri compagni di viaggio.
Il treno parte alle 5 e 31 e io, felice come una Pasqua, formulo una frase dal retrogusto ricco di sciagure: “Cazzo che puntualità, sembrano svizzeri questi mozambicani”.
Il nostro viaggio durerà 26 ore.
Partiamo. L’aria è fresca, il sole scintillante e il panorama abbastanza noioso.
Nel nostro scompartimento siamo 6. Io, la Dani, i nostri compatrioti romani veraci, un francese silenzioso e antipatico e un somalo. Tutto il resto del treno è home made.
Qualche chiacchiera, piccole esplorazioni della carrozza e alcune soste in minuscoli villaggi con il treno assalito da venditori ambulanti che promuovono a gran voce la loro mercanzia, per lo più cibo.
Per spezzare la monotonia chiedo quanto costano due banane. La vecchietta mi dice che vuole qualche metical corrispondenti a 10 centesimi, accetto e lei mi vende l’interno casco. 20 banane, 10 cent! Rido di stupore senza sapere che non solo ho fatto un affare economico, ma mi sono anche assicurato la cena e la colazione. Perché questo viaggio è solo agli inizi…
Le soste sono lunghe, ma dopo quattro ore passate rapidamente ci fermiamo nel famoso punto di scambio, ovvero l’unico tratto di questa ferrovia con due binari dove i due treni, che provengono dalle direzioni opposte, hanno lo spazio per incrociarsi e proseguire.
Mezz’oretta di sosta e poi si riparte. Un’altra pezzetto di questi 300 e passa kilometri e poi di nuovo fermi. Questa volta per davvero.
Sono le 12. Il treno si ancora nel nulla, nel mezzo della savana africana tra alberi frondosi e qualche capanna che non mi sento di definire villaggio. Subito una fitta folla si avvicina e, come consuetudine, cerca di venderci carote, insalate e manioca.
La sosta si protrae, la gente del posto, dopo la novità iniziale, perde interesse e noi cominciamo a cercare di capire se c’è qualche problema.
Le informazioni sono confuse. Scendiamo dalla carrozza, ci sgranchiamo le gambe, cerchiamo gli addetti del treno e pare di capire che davanti a noi c’è un treno guasto che blocca la linea.
Le ore si susseguono lentamente, non c’è molto da fare e un po’ di preoccupazione comincia a fare capolino. I mozambicani, avvezzi agli imprevisti, stanno seduti nei loro scomodi sedili, non parlano, non scendono e forse neanche sudano anche se c’è un caldo appiccicoso.
Cerco di socializzare con le persone del villaggio, ma stranamente sono schivi e i loro occhi brillano di un sentimento che mi sembra quasi di disprezzo. E’ strano, ma ho come la sensazione che non siamo benvenuti, a malapena tollerati. La noia e l’incertezza mi portano a fare brutti pensieri che scaccio rapidamente.
Sono ormai le 6 di sera e il cielo si spegne, sono passate 6 ore e realizziamo che non solo il treno non ha elettricità (va a carbone), ma in giro non c’è una luce degna di questo nome.
Torno nella carrozza dove ormai si vede ben poco e, con disgustosa sorpresa scopro che il nostro scompartimento adiacente alla toilette – e uso il francese per creare un vero e proprio ossimoro – è pieno di scarafaggi. Tra i più grossi e creativi che abbia mai conosciuto.
La Daniela ha una fobia per gli insetti e un terrore puro per questa specie. La tensione e la paura sfociano in un pianto disperato, inconsolabile. Tiriamo giù i sedili per renderli cuccette e la piazzo in quella a metà, sperando che gli scarafaggi non volino più di tanto…
Non abbiamo cibo e solo poca acqua ormai. Qualche fetta di pane bianco offerta dai nostri compagni di sventura, le mie decine di banane e alcuni biscotti. Il bagno è così putrido che solo noi uomini osiamo usarlo.
Nessuno esce più dal treno, fuori il buio è pesto spezzato solo da qualche fioca luce in lontananza. Gli abitanti del villaggio chiacchierano sommessamente e ascoltano musica da vecchi stereo. Noi, impotenti, ci stendiamo cercando di non pensare agli scarraffoni che gironzolano senza sosta tra i nostri piedi.
Verso mezzanotte, dopo 12 ore di stallo, il suono potente di una sirena squarcia il silenzio, la notte e il mio torpore. Non ci scommetterei le mie banane, ma secondo me si parte. La sirena suona 3 volte e poi, come per miracolo, le ruote del treno lentamente cominciano a cigolare e a roteare verso Nampula.
Secondo i miei calcoli del tutto improvvisati non dovremmo essere troppo lontani dalla meta.
La notte procede a piccoli sobbalzi, cullati dal lento incedere della vecchia ferraglia che si ferma di quando in quando in stazioni immobili.
Il cielo si schiarisce, arriva l’alba e si alza il sole. La campagna lascia il posto a sporadici edifici di cemento che via via aumentano di bruttezza e densità.
Stiamo entrando in una stazione, c’è un cartello con su scritto Nampula.
Sono le 6 e 26 quando il convoglio si ferma, sfinito quasi quanto noi. Sono passate 25 ore e 55 minuti, più di un giorno intero nel mezzo del Mozambico. C'è una lunga fila di gente che attende il nostro-loro treno tra cui quattro giovanotti sorridenti che paiono scandinavi. Li guardo e provo pena per loro: "Non sapete cosa vi aspetta!"
La città è così orribile che ci sobbarchiamo altre 4 ore di mini bus e arriviamo a Ilha de Mocambique dove il delizioso Escondidinho ci ospita con gamberi freschi, coca cola, piscina e una grossa donna che ci chiede: “Laundry?” Per noi è un angelo. La guardiamo quasi in lacrime e le lasciamo tutti i nostri vestiti, se potessi le chiederei di lavarmi anche la pelle ormai gialla dallo sporco.
Dopo anni ricordo tutto di questa esperienza e, seppur tremenda, la ricordo sempre come un momento di viaggio, uno di quelli veri!
Che esperienza! Avete osato riprendere il treno in Africa in seguito? Sembra che attraversarla in bici sia quasi più semplice a leggere il racconto di altri blogger.
Mhm…in effetti in Africa no, l’abbiamo ripreso in India ;-D