Ucraina, in viaggio verso la guerra

È un mercoledì come tanti, e come tante altre volte Yelena arriva a casa nostra per fare le pulizie. Lei è ucraina e solo una settimana fa mi aveva rassicurato dicendo che era tutto ok, i soliti giornali e TV che esageravano.

Oggi arriva senza mascherina, con il volto teso e quando le chiedo come va mi dice che, ieri notte, suo marito è partito per andare a recuperare la loro famiglia. Da solo, in macchina, affrontando un viaggio di oltre duemila chilometri, cinque frontiere e mille punti interrogativi.

Yelena mi dice che loro sono relativamente fortunati, infatti i bombardamenti non sono arrivati nella loro città al confine con la Moldavia, ma per ora si sono fermati a 100 chilometri di distanza.

È assalita dalla preoccupazione, ma soprattutto è arrabbiata. Non ce lo aspettavamo, quasi urla scuotendo la testa e non capisco che senso ha.

Mi dice che in realtà lei è russa, tutta la sua famiglia è russa e quando ha sposato Valerio si è trasferita in quella che, ai tempi, era ancora URSS. Mi guarda e con la rabbia negli occhi mi dice che è normale per loro. La metà delle famiglie sia in Ucraina che in Russia sono miste, siamo uguali, che senso ha bombardare la propria gente?

Frustrazione, rabbia, angoscia. Mi si gonfiano gli occhi mentre parliamo e a stento trattengo le lacrime quando mi racconta con quanta fatica abbiano preso la decisione di andare a prendere la loro famiglia. Anzi una parte perché gli uomini non possono nemmeno provare ad uscire dal paese. Risorse potenzialmente utili nel conflitto.

Hanno discusso con le figlie e le nuore cercando di convincerle che far uscire le donne e i quattro bimbi della famiglia è la soluzione migliore. Per i bambini, che hanno tra i sei e i tre anni a cui oltre al pericolo è meglio risparmiare anche il trauma. Alle madri per mettersi in salvo. Ai mariti che, in caso si aprisse uno spiraglio, possono tentare la fuga più agilmente.

Valerio ora è in viaggio, forse arriverà stasera e proverà a dormire qualche ora al confine, in Moldavia. Non può entrare in Ucraina o rischierebbe di rimanere bloccato. Dall’altra parte due donne e quattro bimbi che hanno già tentato la fuga dalla Romania, ma nove chilometri di profughi e una fila immobile li hanno dissuasi. Ora proveranno ad uscire da un confine secondario, più piccolo, ma poi?

I bambini non hanno il passaporto, si ritroveranno in sette su una piccola macchina ad attraversare frontiere e a negoziare con ufficiali di dogana che non è dato sapere come reagiranno.

Lei non esterna le sue angosce, ma ormai sono anche diventate un po’ le mie. Riusciranno ad uscire? E se li fermano in qualche paese a metà strada? Avranno di che nutrirsi e coprirsi, dove dormiranno? Ce la faranno ad arrivare in Italia? E una volta qui come se la caveranno?

Yelena ha il viso tirato, scuote la testa e mi dice di nuovo che non capisce, che il covid non è ancora finito e questo inizia una guerra. In Ucraina dicono che lui voglia andare fino in fondo e lei si affida solo alle speranze di una moglie con un marito partito per un viaggio assurdo, di una mamma con dei figli che potrebbero essere chiamati al fronte e di una nonna che immagina i suoi nipotini in questa folle situazione.

Torno in camera e non riesco a non pensarci, ho bisogno di scrivere queste cose perché vorrei gridare al mondo che non è giusto, che non ha senso e che nessuno merita tutto questo.

È vero, non è la prima volta che succede una cosa del genere negli ultimi anni. Yemen, Mali, Siria, Sud Sudan solo per fare alcuni esempi. Ma oggi la guerra, anche se in maniera indiretta e lontana, è entrata in casa mia. Ho sentito come uno schiaffo e un groppo alla gola e ho balbettato banalità e offerte di aiuto. Mi sento in colpa per i miei privilegi e infuriato con un’umanità a cui di umano sta rimanendo ben poco.

Mentre scrivo un amico mi ha appena informato che sta organizzando raccolte di cibo e medicine da mandare in Ucraina. Non faccio appelli a nessuno, ognuno faccia ciò che si sente.

Spero solo che questo racconto possa mettere un po’ a disagio altri privilegiati come me, che troppo spesso ci fermiamo ad un “mi dispiace”.



Lascia un commento